Trump avanti, ma ecco perché non può sottovalutare Ron DeSantis

Il mio pezzo su NICOLAPORRO.IT/ATLANTCICOQUOTIDIANO di oggi:

Credo che non ci sia un solo conservatore americano che non ricordi a memoria le famose parole di Ronald Reagan: “The nine most terrifying words in the English language are, ‘I’m from the government, and I’m here to help’” (“Le nove parole più terrificanti nella lingua inglese sono: ‘Sono del governo e sono qui per aiutare’”).

La minaccia woke

The Gipper le pronunciò mentre l’America stava annegando in una tassazione punitiva e in una gabbia di regole e contro-regole spaventosa ed esagerata – almeno per gli americani, bazzecole per noi italiani, ça va sans dire. Ebbene, hanno perfettamente ragione coloro i quali osservano che oggi come oggi la maggiore minaccia che il popolo americano deve affrontare è la metastasi dell’ideologia woke, sponsorizzata a suon di miliardi di dollari dalle élite che imperversano in tutte le principali istituzioni della vita politica e civile americana.

Altrettanto indubitabile è il dato di fatto che nessuna figura politica di rilievo in tutta l’America ha compreso meglio di Ron DeSantis questa realtà. Non solo: egli è l’unico che sia passato all’azione con tutto il peso e la forza datagli dagli elettori, e questo ripetutamente e senza riserve.

Che si tratti di Teoria critica della razza o di indottrinamento dell’ideologia di genere nelle aule scolastiche e universitarie o nei consigli aziendali, DeSantis ha adottato misure decisive per difendere la sanità mentale della civiltà e limitare o proscrivere apertamente la diffusione dei principi corrosivi del wokeismo.

La legge sui diritti dei genitori

Ovviamente i critici “de sinistra” – ma anche qualche libertarian – hanno levato i loro alti lai accusandolo di aver implementato un’agenda “di estrema destra” nel Sunshine State (la Florida, stato di cui DeSantis è governatore dal 2019). Per dire, la legge sui diritti dei genitori nell’istruzione, che la sinistra ha immediatamente soprannominato la legge Don’t Say Gay (“Non dire gay”), ha fatto stracciare le vesti a sindacati e attivisti.

Il disegno di legge originale vietava agli insegnanti della Florida dall’asilo alla terza elementare di discutere l’orientamento sessuale e l’identità di genere, ma poi – orrore! – è stato ampliato in modo da coprire gli studenti fino all’ottavo anno, e infine – una tragedia! – ad aprile è stato esteso all’intero percorso (K-12)!

Ad aggravare la situazione, la legge prevede – udite! udite! – che gli insegnanti che violano il divieto potrebbero perdere le loro licenze di insegnamento, per non parlare della messa al bando dei libri per bambini che menzionano questioni Lgbtq!

Lo scontro con Disney

Ma il “Don’t Say Gay” non ha fatto indignare soltanto sindacalisti e attivisti: la componente Lgbtq dell’azienda più importante e maggior datore di lavoro della Florida, The Walt Disney Companysi è messa di traverso e… [CONTINUA A LEGGERE]

Pubblicità

School Choice: come scardinare l’egemonia culturale della sinistra

 

Il mio pezzo su NICOLAPORRO.IT/ATLANTCICOQUOTIDIANO di oggi:

 

“Se diventasse chiaro che i bambini ottengono i migliori risultati nelle scuole scelte e persino gestite dai propri genitori, il pubblico sarebbe aperto a ripensare l’erogazione di altri servizi pubblici, dal welfare all’assistenza sanitaria”

Bisogna sentirla, Randi Weingarten, presidente dell’American Federation of Teachers (Federazione americana degli insegnanti), forte di 1 milione e 700 mila membri, quando alza la voce contro i genitori e i politici che osano mettere in discussione lo strapotere di insegnanti iper-politicizzati e ovviamente “de sinistra”.
Chi ha politicizzato la scuola
Quelli, insomma, che hanno monopolizzato il sistema educativo americano per decenni, trasformando le aule scolastiche in casse di risonanza delle loro idee, nonché fabbriche del consenso per il Partito Democratico. Ovviamente loro, gli “insegnanti democratici”, non indottrinano, non impongono nulla, non fanno il lavaggio del cervello a nessuno, bensì stimolano e nutrono “il pensiero creativo di cui i nostri studenti hanno bisogno” (parola di Weingarten).
Lascia basiti la faccia di tolla con la quale questa signora – definita recentemente da Mike Pompeo “il volto più visibile della distruzione della scuola americana” e “la persona più pericolosa del mondo” – proclama che “ciò di cui [i nostri studenti, ndr] non hanno bisogno è un’aula politicizzata in cui i Repubblicani perfidi e cattivi mettono i vicini contro i vicini, censurano lezioni di storia, scienze e studi sociali accurate e adeguate all’età…”.
Insomma, i censori non sono gli insegnanti radicalizzati e woke che tutti noi che cerchiamo di seguire quello che accade dall’altra parte dell’oceano abbiamo imparato a conoscere, ma i genitori che si ribellano e i legislatori à la Ron DeSantis e Greg Abbott che scendono in campo per tutelare il diritto delle famiglie a un’educazione degna di questo nome per i bambini e i giovani americani.

Lo School Choice
Ma se Weingarten ha il dente avvelenato a tal punto da cambiare le carte in tavola con tanta disinvoltura la si può anche capire, umanamente parlando, come si evince facilmente dalla lettura di un articolo pubblicato su The Spectator (U.S. Edition) nei giorni scorsi e che è per vari aspetti sorprendente.
L’argomento è quello che gli americani chiamano “school choice” (letteralmente: scelta scolastica, scelta della scuola), un’espressione che indica le opzioni educative che consentono agli studenti e alle famiglie di scegliere alternative alle scuole pubbliche.
Oggetto di accesi dibattiti in vari Stati americani, lo school choice è oramai un vero e proprio movimento sociale e politico, il cui scopo è ovviamente quello di implementare queste “opzioni educative” nei vari distretti scolastici operanti nei singoli Stati.
Una minaccia per i Dem
Ebbene, l’autore dell’articolo, Lewis M. Andrews, non usa molti giri di parole per esternare la sua tesi, che riguarda quella che secondo lui sarà probabilmente la conseguenza politica principale dello school choice: la fine del Partito Democratico… [CONTINUA A LEGGERE]
Categorie:america, partiti

Sinistra woke, la più distruttiva di sempre

Il mio pezzo su NICOLAPORRO.IT/ATLANTICOQUOTIDIANO di oggi.

Un pluripremiato teorico politico, Yoram Hazony, spiega magnificamente da dove viene fuori e qual è il Dna filosofico, politico e culturale di quella che siamo soliti definire sinistra woke. Lo ha fatto in un libro, Conservatism: A Rediscovery, uscito alla fine di agosto dell’anno scorso e ambiziosamente finalizzato a fornire una nuova base teorica per il conservatorismo.

Un marxismo camuffato

La narrazione di Hazony mostra come “l’egemonia del liberalismo illuminista” sia andata a farsi benedire per lasciare il posto ad un marxismo camuffato – cioè il “progressismo” nella sua formulazione woke. Dunque, accomunare o marchiare come marxisti tout court i promotori della cosiddetta cancel culture, gli attivisti di BLM (Black Lives Matter) e i seguaci della CRT (Critical Race Theory, “teoria critica della razza”) è quanto meno impreciso se non azzardato. Questo approccio è spiazzante per i tanti che si erano fidati della vulgata corrente soprattutto nel mondo anglofono.

L’intuizione marxiana che le categorie che i liberali usano per costruire la loro teoria della realtà politica (libertà, uguaglianza, diritti e consenso) siano insufficienti per comprendere il dominio politico, spiega Hazony, mantiene la sua centralità.

La ricerca di una nuova classe di oppressi

Come il marxismo, la sinistra woke divide l’umanità in oppressori e oppressi, e vede lo stato come uno strumento di potere che dovrebbe essere adattato ai bisogni dei presunti oppressi. Ma essa ha abbandonato la prospettiva socioeconomica della vecchia teoria marxista, e cioè che le persone formino invariabilmente classi o gruppi coesi e il fatto che queste classi o gruppi invariabilmente pratichino l’oppressione e lo sfruttamento reciproco, con lo stato che funziona come uno strumento della classe degli oppressori.

La sinistra woke continua tuttavia a immaginare la realtà secondo linee simili, però ha sostituito gli antagonismi socioeconomici (che si esprimono come conflitto di classe) con qualcos’altro e senza rinunciare alla soluzione rivoluzionaria.

La Scuola di Francoforte

Per comprendere questo salto di qualità, prosegue il ragionamento di Hazony, occorre capire cosa ha rappresentato il contributo della Teoria Critica praticata nella Germania tra le due guerre dalla Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse, Habermas… per citare soltanto alcuni).

Invece di evidenziare la lotta di classe incentrata sulla proprietà dei mezzi di produzione, i teorici critici parlavano di combattere il pregiudizio e… aumentare la soddisfazione erotica! Tra i teorici della Scuola di Francoforte, infatti, si fece strada il tentativo di assimilare il marxismo a una variante della psicologia freudiana. E nell’opera di Herbert Marcuse il socialismo marxista si fonde appunto con la visione della sessualità polimorfica… [CONTINUA A LEGGERE]

Roald Dahl: respinto l’ennesimo assalto woke

Il mio pezzo su NICOLAPORRO.IT/ATLANTICOQUOTIDIANO di oggi.

È appena scoppiato il caso della ristampa dei romanzi di James Bond che, come informa The Telegraph, offrirà ai lettori una revisione che include la cancellazione dal testo di quei vocaboli che potrebbero suscitare polemiche per la loro presunta “inappropriatezza” (leggi: razzismo).

Contemporaneamente, si è chiusa (o quasi) una vicenda analoga, quella delle opere di Roald Dahl, sottoposte anche loro a una censura in puro stile woke. In attesa di vedere come si concluderà l’operazione “ripulitura” dei romanzi di Ian Fleming dai termini ritenuti razzisti, può essere istruttivo ripercorrere le tappe del caso Dahl, dagli esordi scoppiettanti alla mesta conclusione.

Linguaggio ripulito

“Roald Dahl non era un angelo, ma questa censura è assurda. Puffin Books e gli eredi di Dahl dovrebbero vergognarsi“, ha twittato qualche giorno fa il romanziere americano-britannico-indiano Salman Rushdie in risposta a Suzanne Nossel, ad di Pen America, organizzazione nonprofit per la difesa della libertà di espressione negli Stati Uniti. Nossel aveva affermato di essere “allarmata” per centinaia di modifiche alle opere di Roald Dahl “nel presunto tentativo di ripulire i libri da ciò che potrebbe offendere qualcuno”.

Come riportato per la prima volta dal Daily Telegraph, “il linguaggio relativo al peso, alla salute mentale, alla violenza, al genere e alla razza è stato tagliato e riscritto“. Ad esempio, la parola “grasso” è stata tagliata da ogni nuova edizione dei libri, mentre la parola “brutto” è stata eliminata.

Di conseguenza, Augustus Gloop in Charlie e la fabbrica di cioccolato è ora descritto come “enorme” (invece che “enormemente grasso”) mentre in The Twits, la signora Twit non è più “brutta e bestiale” ma solo “bestiale”. Anche il termine “pazzo” è stato eliminato.

Oltre alle numerose modifiche apportate al testo originale, sono stati aggiunti alcuni passaggi non scritti da Dahl. In The Witches, un passaggio che spiega che le streghe nel libro sono calve sotto le loro parrucche ora include una riga che dice: “Ci sono molte altre ragioni per cui le donne potrebbero indossare parrucche e certamente non c’è niente di sbagliato in questo”… [CONTINUA A LEGGERE]

Categorie:Uncategorized

Anche l’America sta finendo: il grido d’allarme di Victor Davis Hanson

17 dicembre, 2022 Lascia un commento

Il mio pezzo su NICOLAPORRO.IT/ATLANTICOQUOTIDIANO del 17/12/2022.

Triste ma lucida denuncia: dalle università woke alle istituzioni canaglia, mai una rivoluzione culturale così focalizzata sul radere al suolo le fondamenta dell’America.

Victor Davis Hanson, noto commentatore politico, nonché acclamato classicista e senior fellow del prestigioso think tank della Stanford University noto come Hoover Institution, non è nuovo ad uscite spiazzanti e anticipatrici di eventi.

Il destino di Trump

Come un libro, “The Case for Trump”, di cui annunciammo l’uscita qui su Atlantico Quotidiano nel marzo 2019 e nel quale l’autore teorizzava dottamente su quello che a lui sembrava l’inevitabile destino dell’allora presidente uscente.

Il libro, dopo aver raccontato e spiegato come nel 2016 un uomo d’affari e una celebrità mediatica senza esperienza politica sia riuscito a trionfare su sedici qualificatissimi rivali repubblicani e contro una candidata democratica con un quarto di miliardo di dollari a disposizione per la campagna elettorale, esponeva una tesi singolare e affascinanteThe Donald è una sorta di “eroe tragico” di tipo classico, di cui l’America ha disperatamente bisogno, ma che era destinato a ricevere ben presto il ben servito dal suo Paese. E così fu, effettivamente, venti mesi dopo, alle presidenziali del novembre 2020.

Le rovine

Adesso il professore si lancia in un’altra predizione, stavolta relativa all’intera nazione americana, e non è un pronostico favorevole, per usare un eufemismo. Il sottotitolo e una citazione di Adam Smith all’inizio dell’articolo dicono tutto. La citazione: “Stai certo, giovane amico, che c’è molta rovina in una nazione”. Il sottotitolo: “Sì, c’è molta rovina nelle grandi nazioni. Ma anche l’America ormai sta finendo”.

Lo scenario che abbiamo di fronte, scrive il professore, è eloquente: abbiamo un debito collettivo di 31 trilioni di dollari, scrive Hanson, un esercito che è politicizzato e a corto di reclute, un FBI corrotto e screditato, che “collabora con gli appaltatori della Silicon Valley per sopprimere la libertà di parola e deformare le elezioni”.

Siamo un Paese che ha già conosciuto la sconfitta, continua VDH, “ma mai una degradante e deliberata umiliazione come a Kabul, quando siamo fuggiti e abbiamo abbandonato ai terroristi Talebani un’ambasciata da un miliardo di dollari, un’enorme base aerea ristrutturata, migliaia di amici e decine di miliardi di dollari in materiale militare…”.

La convivenza civile

Hanson menziona poi “il crollo delle norme di base essenziali per la vita civile”, ad esempio passeggiare al Cairo sembra “più sicuro di un viaggio in metropolitana fuori orario o di un’uscita al tramonto in molte delle principali città americane”, e “le strade della Londra medievale erano probabilmente più pulite di Market Street a San Francisco“. E se questo non basta, “la parola era più libera nell’America degli anni ‘20 di quanto non lo sia adesso”. Bel quadretto, vero? Ma è solo l’incipit del cahier de doléances hansoniano.

California: il preambolo

Cominciamo dalla California, che è sempre stata “un preambolo per il futuro dell’America”, tanto che il suo presente, scrive Hanson, è probabilmente il domani dell’intero Paese – se non di tutto l’Occidente, potremmo aggiungere noi.

Ebbene, “qui ogni estate ci aspettiamo impotenti incendi boschivi”, ammette VDH, californiano doc. Milioni di acri di fiamme riversano nei cieli altri milioni di tonnellate di fumo, carbonio e fuliggine. Decine di milioni di odiati motori a combustione non possono eguagliare i danni provocati da quella catastrofe all’aria che si respira. Lo Stato pensa di cavarsela dicendo che gli incendi sono inevitabili e naturali… [CONTINUA A LEGGERE]

Indagine sul mondo trumpiano che ha deciso di andare oltre Trump

5 dicembre, 2022 Lascia un commento

Il mio pezzo su NICOLAPORRO.IT/ATLANTICOQUOTIDIANO del 13/11/2022.

Trumpiani della prima ora, lo hanno votato e lo rivoterebbero nel 2024, gli riconoscono grandi meriti, ma ora suggeriscono il passo indietro e un ruolo da “king maker”

Ora mi credete? È stato davvero così difficile credere che 80 milioni di persone abbiano votato contro Trump due anni fa? Ieri sera il popolo della Pennsylvania ha letteralmente votato per un vegetale invece che per la “scelta” di Trump. L’onda rossa è iniziata e si è conclusa con DeSantis in Florida. Di quale ulteriore prova avete bisogno? Fino a quando Trump non scenderà dal palco il Gop non vincerà mai più a livello nazionale.

L’autore di queste parole – pennellate fugacemente su Facebook – è Michael Walsh, giornalista, per molti anni critico musicale di Time magazine,  poi columnist per il New York Post e collaboratore di varie altre testate nazionali e internazionalinonché saggista e autore di opere letterarie tradotte in una ventina di lingue.

Walsh, per mia fortuna, è anche mio amico su Facebook, e uno di quelli di cui vado più fiero, perché se c’è una cosa che mi riempie di soddisfazione nel precario mondo dei social media è la possibilità di sapere in presa diretta cosa pensa qualcuno di cui ho amato uno o più libri.

Nel caso specifico si tratta di “The Devil’s Pleasure Palace”, sottotitolo: “The Cult of Critical Theory and the Subversion of the West” (“Il palazzo del piacere del diavolo: il culto della teoria critica e la sovversione dell’Occidente). Un libro, uscito nel 2015, che denuncia con forza le conseguenze nefaste per l’intero Occidente del complesso di inferiorità culturale dell’élite transnazionale di New York e Washington nei confronti della Scuola di Francoforte e della sua “teoria critica”.

Lo spartiacque del 6 Gennaio

Da notare che Walsh, coltissimo e raffinato intellettuale, è sempre stato un appassionato sostenitore del ruspante – e a volte francamente imbarazzante – tycoon newyorkese. Fino a quello stramaledetto 6 gennaio 2021, il giorno dell’”assalto al Campidoglio”… Da allora l’appoggio incondizionato si è trasformato in aperta avversione.

Personalmente ho compreso, pur senza condividerle (o condividendo solo in parte), le motivazioni del mutamento di opinione. Dobbiamo pensare al giusto culto dei concittadini di Michael Walsh per la “sacralità” dei luoghi e dei simboli della democrazia americana… Noi europei, italiani e francesi in testa, siamo più lascivi e possibilisti in certe materie, se vogliamo anche più cinici.

E difatti Walsh non è certo il solo, in America, che ha cambiato idea dopo il 6 Gennaio. Di sicuro gli eventi di quel giorno hanno acceso un riflettore impietoso su quello che non pochi considerano un bug nella personalità di The Donald... [CONTINUA A LEGGERE]

Categorie:america

Neocon per forza, speriamo senza bomba

5 dicembre, 2022 Lascia un commento

Il mio pezzo su NICOLAPORRO.IT/ATLANTICOQUOTIDIANO del 9/10/2022.

Forse la democrazia non si esporta, come Ferrara dolorosamente (e coraggiosamente) riconosce. Ma allora in che senso avevano ragione loro?

E finalmente Giuliano Ferrara si tolse il sassolino puntuto – e neanche tanto sassolino – dalla scarpa: “Avevamo ragione noi”, anzi lui scrive con modestia “loro”, cioè i neoconservatori, quelli che nel lontano 1997 fondarono un think tank che prendeva il nome di Project for the New American Century (PNAC).

E che bella soddisfazione per il grande Bill e il vecchio Bob (William Kristoll e Robert Kagan), i due dioscuri del “Progetto per il nuovo secolo americano”, secondo il quale nel XXI secolo gli Stati Uniti “avrebbero dovuto dispiegare tutta la loro forza militare, diplomatica, economica per assicurare agli americani e al mondo una ‘benevola egemonia’” del sistema uscito vincitore dalla Guerra Fredda.

Per intendersi, quei due “spingevano, prima ancora dell’11 settembre, per la riscrittura armata della mappa del Medio Oriente (la famosa esportazione della democrazia, il regime change) e per una nuova concezione euroamericana dell’atlantismo, non più segnata dall’equilibrio multilaterale ma da un tratto di unilateralismo guidato dagli Usa”. Ci pensate? Ancor prima dell’11 settembre! Non è commovente?

E che peccato che le cose, per il solito destino cinico e baro, oltre che per l’insipienza e inettitudine dell’Occidente preso nel suo complesso, abbiano preso un’altra piega, fino alla fuga ingloriosa da Kabul nell’agosto dello scorso anno, a sigillo delle guerre dei due Bush e dei loro ispiratori e mentori neocon.

E a dimostrazione, qualora ce ne fosse stato bisogno, che “forse” la democrazia non si esporta, come Ferrara dolorosamente (e coraggiosamente) riconosce. Eh già, duro esportare la democrazia, persino quella di Biden, che è notoriamente di larghe vedute quanto a tentazioni e vizietti imperanti in quelle lontane terre mediorientali.

E comunque, già ai tempi di Obama gli uomini del PNAC erano in ritirata, o come dice Ferrara erano entrati nel cono d’ombra della politica internazionale… [CONTINUA A LEGGERE]

Categorie:america

L’uomo dietro le quinte: come funziona il network di George Soros

22 settembre, 2022 Lascia un commento

Il mio pezzo su NICOLAPORRO.IT/ATLANTICOQUOTIDIANO di oggi.

Si è infiltrato in ogni aspetto della vita pubblica Usa: media, gruppi di estrema sinistra, leader politici e procuratori distrettuali. La sua missione? La caduta dell’America

Tempo fa uscì un libro su George Soros, e non era neanche male, ricco di dettagli su vita e opere, ma l’inflessibile recensore osservava che il libro sembrava incompleto perché rimaneva senza risposta la domanda sul perché Soros fa quello che fa.
Quello che interessa di più, in un personaggio come questo, insomma, non è tanto il fatto che sia un investitore di indubbio successo, quanto il motivo per il quale egli si senta spinto a essere un filosofo, un “filantropo”, almeno secondo la vulgata mainstream, nonché un animatore e agitatore politico.

Il libro di Matt Palumbo
Ebbene, la stessa critica non può essere rivolta al nuovo libro di Matt Palumbo“The Man Behind the Curtain: Inside the Secret Network of George Soros” (“L’uomo dietro le quinte: all’interno della rete segreta di George Soros”). Uscito all’inizio di quest’anno, il libro descrive in dettaglio il legame del miliardario con la politica americana, il suo credo filosofico-politico e la sua visione del mondo e della vita.

L’autore non dimentica di illustrare come Soros non solo controlli ciò che viene scritto su di lui, ma influenzi anche il modo in cui il pubblico americano percepisce gli eventi di cronaca.
Ma più che altro Palumbo traccia il ritratto di uno di quei rari megalomani che non solo credono di essere dei, ma si divertono a comportarsi come tali. “È una specie di malattia quando ti consideri una specie di dio, il creatore di tutto, ma mi sento a mio agio ora da quando ho iniziato a viverla”, si è vantato una volta con The Independent.

Il miliardario
Chi sia George Soros lo sappiamo tutti, almeno a grandi linee: è innanzitutto quel signore che nel 1992 condusse un micidiale attacco speculativo alla sterlina e alla lira, costringendo Banca d’Italia e Bank of England a svalutare le rispettive monete nazionali e uscire dal Sistema Monetario Europeo. Il giochetto gli fruttò qualcosa come un miliardo e mezzo di dollari.
Il Soros Fund Management, fondato nel 1970, è considerato una delle aziende più profittevoli nel mondo della finanza internazionale, come testimoniano le decine di miliardi di dollari racimolati dal fondatore grazie ad esso nel corso degli anni.
Il globalista
In America, dove vive stabilmente dal 1956, Soros è noto soprattutto per alcune sue battaglie politiche, tipo quella a favore della legalizzazione dell’eutanasia o l’opposizione alla guerra alla droga in senso antiproibizionista.
Per non parlare dell’approccio decisamente “globalista” incarnato in una rete di ong diffusa in tutto il mondo e gravitante introno alla Open Society Foundation, il cui obiettivo, esplicitato nel nome stesso, è quello di diffondere il modello di società aperta teorizzato da Karl Popper. Il che significa un cosmopolitismo multiculturale che si sostanzia in open markets, open borders e naturalmente open minds, cioè un modello politico-economico oggi messo in discussione da Donald Trump e dai vari movimenti e partiti “sovranisti” sorti in questi anni in Europa.
L’adolescente Soros
All’inizio del libro, Palumbo mette in evidenza la amoralità di Soros, un seme piantato forse quando la sua famiglia ungherese di stirpe ebraica assunse identità cristiane e collaborò con i nazisti invasori. L’adolescente Soros accompagnò il suo falso padrino, che fece l’inventario delle proprietà sequestrate a famiglie ebree inviate nei campi di concentramento.
Ma lui dice di non provare alcun senso di colpa, solo distacco. “Ero solo uno spettatore; la proprietà veniva portata via. Non ho avuto alcun ruolo nel portare via quella proprietà. Quindi, non avevo alcun senso di colpa”, ha detto in un’intervista del 1998 a 60 Minutes.
Ha paragonato le sue azioni allora al suo giocare sui mercati in seguito. “In un modo divertente”, ha detto, “è proprio come nei mercati – che se non ci fossi io, lo farebbe qualcun altro”. Egli, annota Palumbo, racconta quel periodo come “probabilmente l’anno più felice della mia vita” e “un’esperienza molto felice ed esaltante”…[CONTINUA A LEGGERE]

Categorie:america, economia, libri

DeSantis stana le élites liberal: vogliono accogliere tutti, purché non a casa loro

17 settembre, 2022 Lascia un commento

In quanti ci avete pensato? Trasferire i migranti illegali a Capalbio o ai Parioli, o davanti casa della Boldrini… Negli Usa alcuni governatori Repubblicani lo stanno facendo. Ron DeSantis ne ha mandati 50 a Martha’s Vineyard, e la reazione non è stata quella che tutti si aspettavano… Il mio pezzo su NICOLAPORRO.IT (Atlantico Quotidiano).

 

DeSantis ha fatto il botto. Secondo quanto inizialmente riportato dalla Gazzetta di Vineyard, una cinquantina circa di migranti illegali provenienti dal Texas sono atterrati all’aeroporto di Martha’s Vineyard, Massachusetts, mercoledì pomeriggio.

Ma la Gazette è stata prontamente e parzialmente smentita dal governatore della Florida, Ronald Dion DeSantis, il quale si è preso il merito di tutta l’operazione. “Sì, la Florida può confermare che i due aerei con immigrati illegali arrivati ​​a Martha’s Vineyard oggi facevano parte del programma di trasferimento dello stato per trasportare gli immigrati illegali verso destinazioni di santuari”, ha detto a Fox News il direttore delle comunicazioni di Desantis, Taryn Fenske.

Che ha subito dopo aggiunto: “Stati come il Massachusetts, New York e la California sapranno prendersi meglio cura di queste persone, da loro stessi invitate nel nostro Paese incentivando l’immigrazione illegale”, il tutto nella loro qualità di ‘stati santuario’ e nel rigoroso rispetto delle politiche di frontiera aperta dell’amministrazione Biden.

Il giorno dopo DeSantis ha chiarito ulteriormente il concetto: “Non siamo uno stato santuario, ed è di gran lunga preferibile far rotta verso una giurisdizione santuario” (quegli stati che disapplicano le norme federali in materia di immigrazione irregolare). E noi, ha aggiunto sarcasticamente, daremo volentieri una mano onde “agevolare il viaggio dei migranti verso pascoli più verdi”.

Del resto, ha concluso, “ogni comunità in America dovrebbe condividere gli oneri, i quali non dovrebbero ricadere su una manciata di red states” (stati a guida repubblicana).

Un aspetto ironico di tutta la vicenda è che Martha’s Vineyard, località situata al largo della costa del Massachusetts, è da tempo immemorabile una destinazione estiva elegante per i ricchi vacanzieri, i quali si suppone che siano in buona parte di orientamento progressista o quanto meno RINO (acronimo che sta per Republicans in name only, Repubblicani solo di nome), come il governatore dello stato, Charlie Baker, cordialmente detestato da Donald Trump, contraccambiato a sua volta con pari entusiasmo… [CONTINUA A LEGGERE]

Categorie:america

Treccani, lingua storpiata in nome di un’agenda ideologica

14 settembre, 2022 Lascia un commento

In questo mio pezzo su NICOLAPORRO.IT (Atlantico Quotidiano) c’è tutta la mia “ammirazione” per il nuovo Vocabolario Treccani, senza dimenticare l’avvertimento di Nathaniel Hawthorn circa le parole e i dizionari…

Obiettivo rivendicato: “validare una nuova visione della società”. Nel nuovo vocabolario forme al femminile con esiti grotteschi: architetta, notaia, medica, soldata

Beati gli anglofoni, perché nell’era del politically correct applicato alla lingua si ritrovano un po’ meno incasinati di noi, poveri diavoli condannati a divincolarci nelle sabbie mobili dell’orrido dualismo maschile/femminile…
Una lingua in cui non c’è costrutto nel buttarla in caciara quando si tratta di stabilire quale sia il termine più adatto per indicare una donna che esercita la professione notarile, o quella medica, magari nella variante chirurgica, e per non parlare della gentile signora o signorina che ha scelto di servire la patria in armi.

Sì, insomma, ci siamo capiti: notaio/notaia, architetto/architetta, medico/medica, chirurgo/chirurga, soldato/soldata e chi più ne ha più ne metta. Dualismo che in inglese te lo scordi, giacché un medico e una medica sono sempre e solo a physician, mentre un chirurgo e una chirurga sono a surgeon e un soldato e una soldata sono a soldier.
E in aggiunta senza la schiavitù degli articoli, con quel prodigioso e regale the che si pappa tutti i lo, il, la, e in sovrappiù i, gli e le, perché a loro piace far le cose per bene, senza fronzoli e fino in fondo.
Eh no, da noi no. Da noi per cavare un ragno dal buco ci vogliono diatribe accademiche interminabili, finché non si pronuncia qualche pezzo da novanta del settore, tipo l’Istituto della Enciclopedia Italiana con l’edizione 2022 de Il Vocabolario Treccani, che si autoproclama “un progetto ambizioso e rivoluzionario, nel quale tradizione e progresso si fondono per testimoniare i cambiamenti socio-culturali del nostro Paese e riconoscere – validandole – nuove sfumature, definizioni e accezioni in grado di rappresentare e raccontare al meglio la realtà e l’attualità, attraverso le parole che utilizziamo per viverla e descriverla”.

Nello specifico, in tutta la storia plurisecolare della lessicografia italiana, il Treccani sarà… [CONTINUA A LEGGERE]