Archivio

Archive for 21 luglio, 2005

Severino e il paradosso della laicita'

21 luglio, 2005 1 commento

Sul Corriere di oggi Emanuele Severino risponde al cardinale Scola, che ha proposto—sul medesimo quotidiano, il 17 luglio scorso—di uscire dalla «immagine vecchia dell’idea e della pratica della laicità».
 
Severino riassume così, per poi metterlo in discussione, un passaggio del ragionamento del cardinale:
 
Scrive [il cardinale] di non condividere la persuasione di Habermas, che cioè «per giustificarsi, una democrazia costituzionale non ha bisogno di un "presupposto" etico o religioso». M a si dichiara d’accordo con lui nell’auspicio che credenti e non credenti «si predispongano a un confronto permanente».
 
Severino, ovviamente, plaude alla condivisione dell’auspicio di Habermas ma non al dissenso sui presupposti:
 
E si può essere subito d’accordo, perché se non ci si vuole uccidere a vicenda ci si deve continuamente confrontare nel dialogo.
Ma da che cosa deve partire questo dialogo, se non dalla discussione della tesi da cui il cardinale Scola dissente, cioè che la democrazia costituzionale non ha bisogno di alcun «presupposto» etico o religioso?
 
Attenzione, ammonisce Severino, questo è un punto cruciale, tanto che, paradossalmente,  Habermas, nel famoso incontro con Ratzinger, dà per scontata la negazione dei presupposti e si limita ad un cenno en passant. Un malauguratissimo “malinteso,” secondo Severino, destinato a generare “equivoci” a non finire. Oltretutto, non è stato certo Habermas ad inventarsi la storia che di quei presupposti non c’è alcun bisogno, infatti lui parla a nome e per conto di
 
due secoli di filosofia che sempre più perentoriamente ha mostrato l’impossibilità di ogni «presupposto» etico o religioso, cioè l’impossibilità di un’etica o di una religione che pretendano possedere la verità assoluta.
 
Un concetto ribadito come segue:
 
Perché se il concetto di «laicità» è quanto mai ambiguo, non è per niente ambigua (nella sua essenza più profonda) la potenza con cui la filosofia del nostro tempo ha mostrato l’impossibilità di ogni verità assoluta, di ogni dio, di ogni fondamento che pretenda di sottrarsi al divenire del mondo. La coscienza di questa impossibilità è il fondamento ultimo di ogni «laicità» e proporsi di cambiare questo senso fondamentale della «laicità» significa chiudere gli occhi di fronte all’essenza dello sviluppo storico dell’Occidente.

Bene, direi. A questo punto il ragionamento è chiaro. A parte quella che mi sembra una piccola contraddizione: se, come dice Severino, il concetto di «laicità» è quanto mai ambiguo—e non potrei essere più d’accordo, perché, si parva licet, è ciò che ho sempre pensato anch’io—non si vede perché, un attimo dopo, risulti così facile parlare del fondamento ultimo di ogni «laicità». Non sarebbe meglio sostituire il termine con uno meno equivoco, tra i tanti che sono a disposizione e che indicano più o meno ciò a cui Severino si riferisce?
 
Comunque, come dicevo, s’è afferrato il concetto. E il ragionamento sta in piedi. O meglio, sta in piedi, ma a condizione che si attribuisca alla premessa severiniana un valore decisivo. Perché ovviamente uno potrebbe anche infischiarsene del fatto che due secoli di filosofia “dimostrano” questo o quest’altro. Che cosa sono due secoli di fronte all’eternità? E chi mi assicura che tra qualche anno (lustro, decennio, ecc.) non si decida di buttare a mare quei due stramaledettissimi secoli di speculazione filosofica—che hanno prodotto qua e là  anche qualche non trascurabile guasto e non poche illusioni palingenetiche, che a loro volta hanno generato ideologie e sistemi di governo totalitari, che a loro volta hanno provocato conflitti, massacri e oppressioni di tutti i tipi—e non si torni a guardare alla tradizione filosofica pre-cartesiana (mi guardo bene dal dire pre-illuministica, perché l’Illuminismo è molto più un fatto di cultura che una faccenda filosofica stricto sensu)? Oppure, ipotesi ancor più probabile, chi mi assicura che, non si vada oltre, verso dove non si sa, ma comunque verso lidi nuovi e inesplorati dell’umana riflessione? 
 
Mi rendo conto che il discorso, impostato in questo modo, è “anti-filosofico,” puramente ipotetico e perfino un po’ paradossale. Ma quando si dice che la filosofia “sempre più perentoriamente ha mostrato l’impossibilità di ogni «presupposto» etico o religioso” non si è già entrati nel territorio del puramente ipotetico e del paradossale? Se c’è, infatti, quella “impossibilità,” cosa sono tutti coloro per  i quali l’”impossibile” è un fatto su cui si fonda e da cui si attinge il senso più profondo dell’ esistenza? Sono pazzi o semplicemente stupidi, o ignoranti, o tutte queste cose insieme, ben mescolate e perfettamente amalgamate? E se si risponde a queste domande in modo affermativo, non si è forse già in pieno paradosso, dal momento che a pensarla come i “filosofi” sono relativamente in pochi e dunque la stragrande maggioranza dell’umanità (o una percentuale quanto meno cospicua) sarebbe composta da minus habentes? E non è puramente ipotetico un mondo corrispondente alle aspettative dei “filosofi,” cioè radicalmente diverso da quello che conosciamo, da quello che è nella realtà?
 
Forse un’impostazione “anti-filosofica” è preferibile quando si affrontano determinate problematiche, particolarmente quelle che investono gli stati e i rapporti tra questi e l’etica o le religioni. Un’impostazione più pragmatica e meno teoretica, che dia per scontata, ad esempio (e tanto per rimanere dentro il paradosso e l’ipotesi di lavoro di cui sopra), l’inutilità di un dialogo in cui una (o ciascuna) delle due parti ritiene l’altra delegittimata a dire alcunché di sensato in ordine all’oggetto del dibattere—a meno che, ovviamente, non contraddica se stessa, si cosparga il capo di cenere e faccia pubblica abiura.

Categorie:culture autoctone